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Per amore della ricerca della verità

Da: anonimix
Date: 20 apr 2011
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Integralmente preso da :”Il Giornale” L'immodestia di Scalfari il super ego milionario del fondatore-vate di Giuliano Ferrara • • La vanità è una brutta bestia. Quando la vecchiaia si impa-dronisce di un uomo perfino la di¬sperazione di vivere diventa ridi¬cola Commenti La vanità è una brutta bestia. Quando la vecchiaia si impa¬dronisce di un uomo, e un fu¬tile compiacimento di sé si insinua nel suo cuore, perfino la di¬sperazione di vivere diventa ridi¬cola. Prendiamo Eugenio Scalfari, il Fondatore della Repubblica , il giornale che ha esercitato ed eser¬cita con successo una pedagogia autoritaria ma non autorevole (glielo disse addirittura l’avvocato Agnelli, sempre attento al quoti-diano- cognato). Da una sua bella vecchiaia, magari orgogliosa e su¬perba, ma non vanitosa, avrem¬mo avuto tutti qualcosa da guada¬gnare. Un bel vecchio sicuro della propria debolezza poteva riflette¬re sulla sua boria fascista d’antan (scriveva allegramente su giornali del Duce, ma non se ne è mai as¬sunto la responsabilità civile, reci¬tando invece nella parte di un eroe longanesiano dell’eterno an¬tifascismo bacchettone); poteva indagare sulle miserie di una sca¬lata sociale e mondana che ha de¬formato e massificato commer¬cialmente la tradizione liberale del Mondo di Pannunzio, ma ha preferito lasciarsi pigramente coc¬colare dai beautiful people di una Roma carina e indulgente; sareb¬be stata una bella lezione intro¬spettiva il suo riandare ai giorni in cui divenne un riccastro, sacrifi¬cando a un pacco di miliardi debe¬nedettiani le bellurie dolosamen¬te bugiarde che raccontava sul¬l’editore puro, e sul giornale che ha per soli padroni giornalisti libe¬¬ri e lettori, libertà inesistente scam¬biata per solida paghetta nella ur¬gente necessità di mettere insie¬me la dote per le figlie, come disse giustificandosi, spudorato e inge¬nuo; sarebbe stato bello se avesse denunciato il suo conflitto di inte¬ressi con il proprio editore nella ventennale crociata antiberlusco¬niana per st¬rappare tanti bei milio¬ni di euro all’Arcinemico, che ave¬va rilevato Retequattro dal falli¬mento degli eletti mondadoriani e poi la Mondadori dai suoi vecchi azionisti, lasciandogli la Repubbli-ca e il tesoretto dei giornali locali per imposizione politica di Craxi e Andreotti, intermediario Ciarrapi¬co; e una meraviglia, sarebbe sta¬to, uno Scalfari sereno, con qual¬cosa di venerando sotto la sua or¬namentale barba bianca, uno Scalfari equilibrato e non vacuo, non rancoroso, autoironico sul suo non facile rapporto di attrazio¬ne verso la cultura che lo possiede ma che lui non possiede, la filoso¬fia che biascica da liceale del se¬condo banco, e magari capace di capire che la laicità è un valore lai¬co e liberale, non una stupida con¬fessione di fede e di ceto. Niente da fare. Il Fondatore af¬fonda sempre di più nell’immode¬stia scritta, orale e televisiva. Si guarda pensare allo specchio, in¬contra il cardinal Martini per sug¬gerire una spiritualità severa, pro¬fonda, ma la sua, non quella del prelato di riferimento. Butta fuori a ripetizione libri ariosi e primave¬rili, bozze di un banale giornali¬smo culturale di serie B, per farseli recensire con gridolini di pensosa delizia sul suo giornale. S’incarta nelle varie «biennali della demo¬crazia », dove i suoi scudieri neopu¬¬ritani, giuristi e ideologi altrettan¬to vanagloriosi, gli apparecchiano un simulacro di idee e di pubblico che fa mercato, che fa soldi, che fa politica con mezzi spesso indecen¬ti, da cinepanettone porno. Que¬sto per la coltivazione dell’amor proprio dal basso. Intanto il suo italianista de chevet , debole in con¬giuntivi, lo sprona a tirare le conse¬guen¬ze dei suoi ragionamenti sul¬l’Arcinemico, a chiamare i Carabi¬ni¬eri e la Polizia di Stato per conge¬lare le Camere in una bella prova di forza dall’alto. Il liberalismo del 113. In molti, tra i miei amici, aveva¬no provato a restituire a Scalfari un po’ di fiducia in se stesso,solle¬citandolo a essere come vorrebbe apparire, una specie di piccolo Montaigne meridionale, un diari¬st¬a introspettivo di magagne trop¬po umane, e non una caricatura di filosofo, un guru pomposo e sem¬-plicista per una élite di ignoranti in molta fregola, pieno di albagìa e di intolleranza. Non c’è stato ver¬so. Viltà e vanità sono il carattere, evidentemente indelebile, del chierico italiano medio, il suo stig¬ma botanico, la parte che riceve quella che Jonathan Franzen de¬scrive come «l’impollinazione cul¬turale » dei liberal derelitti e medio¬cri nonostante tanta volgare pre¬sunzione di sé. Peccato, e pazien¬za. Bisognerebbe sottoporre il pe¬tulante narciso alla cura del silen¬zio, che gli farebbe un gran bene. Non fosse che per questo Paese soffocato dai cercatori di applau¬so, intontito dagli amplificatori di un senso comune forcaiolo e fazio¬so, la cura delle vanità è un sottile quotidiano veleno, fa male, sfini¬sce, imbruttisce.


Ultimo aggiornamento: 20-04-11